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Recensione di GIORGIO SEVESO alla personale della Galleria Ciovasso

 

Ricordo ancora molto bene una sera di ormai parecchi anni fa quando, con un paio di cari amici pittori, andammo a casa di Galimberti, di fronte ai suoi quadri d'allora. Fu una serata di intenso, appassionato conversare di pittura, di politica e di esperienze, di vita. E poi ricordo, in anni più recenti, una mia visita pomeridiana ad un suo studio in periferia dove già vidi alcune delle opere che sono presenti in questa piccola ma intensa rassegna, e dove potei riprendere con lui quel dialogo a tutto tondo che era rimasto in sospeso e che dura tuttora, in occasione dei nostri rari incontri. Galimberti, infatti, non è di quei pittori che ti mettono di fronte le loro immagini restando in silenzio. E, anzi, un solerte, acuto, informato conversatore che, volentieri, s'appassiona alle teorie ed al confronto culturale, al dibattito ed all'analisi, pronto sempre a discutere e verificare ogni soluzione, ogni idea, ogni risultato.

Anche per questo, credo, occorre oggi guardare a questi suoi lavori come a qualcosa che non costituisce "soltanto" una testimonianza di pittura e di poesia per immagini ma, anche, vuoi inverare, vuoi incarnare una precisa posizione. in qualche modo risolutamente polemica -nei confronti delle scelte più celebrate e fortunate dell'attualità artistica.

Contro l'irresponsabilità programmatica e i fanciulleschi azzeramenti della transavanguardia o contro il citazionismo affannoso consacrato dall'ultima biennale veneziana, Galimberti, infatti, porta avanti una sua scelta di rigore e di continuità intelligente, segnata da una precisa volontà testimoniale attorno e attraverso l'immagine. Per lui, la pittura non è mai un pretesto, non è lo schermo sul quale affastellare disordinatamente ogni pulsione ed ogni emozione suggerite dalla vita. E, neppure, è il fantasma ambiguo di interessati recuperi, di impacciate riesumazioni che coprono l'odierno vuoto di taluni atteggiamenti o ideologie esistenziali.

C'è invece, nelle sue cose, uno scrupolo definitivo e fondante verso la realtà delle cose, verso l'attendibilità d'una loro interpretazione pittorica, formalizzata nel solco di una tradizione e di una cultura del dipingere che Galimberti conosce e frequenta senza inutili reverenze ma, anche, con intenso e perspicace affetto. Il sostegno vero dell'emozione e del giudizio rimangono i segni ed i colori organizzati nell'immagine, in uno "spazio di comunicazione e di riflessione" che obbedisce, in altre parole, ad una generale, universale convenzione linguistica nella quale e sulla quale si riflettono e si rispecchiano le radici di ogni possibile metafora espressiva seriamente fondata e non gratuita.

In queste opere recenti, che riassumono il suo itinerario di questi ultimi tre quattro anni, Galimberti ha ulteriormente precisato la definizione privatamente contemplativa del suo rapporto con la realtà. Essa, il mondo contemporaneo con le sue luci e le sue ombre, gli spessori contradditori delle nostre speranze e delle nostre angosce, si sono definitivamente trasferiti nel chiuso dello studio: si sono concentrati sul cavalletto, senza bisogno di cronache narrate o di "storia" raccontata, senza aneddotiche di qualunque natura. Le privatissime circostanze della sua esistenza quotidiana, gli oggetti, i volti, i corpi che fanno parte del suo scenario d'ogni giorno funzionano, sulla tela, da catalizzatori, da condensatori di poesia, cioè di trasfigurazione, di dilatazione delle cose e delle vicende. In questo senso ogni suo ritratto, ogni sua natura morta è, insieme, pagina di diario e discorso universale: è realismo, nel senso più pieno e, se volete, anche più ambiguo e problematico del 'termine.

I soggetti dei suoi dipinti sono come alambicchi araldici del pensiero e della sensibilità, che distillano (spesso sotto le sembianze del puro profilo, della "traccia" tutta mentale che imprimono in noi) le emozioni verso le loro più alte sintesi, là dove le cose non hanno più un nome o un senso precisi ma possiedono solo il loro tattile spessore di sentimento, la loro essenziale e vibrante anima. La caffettiera, il telefono, il frutto, la lampada, il corpo nudo di una donna, del figlio adolescente, la setosità di una stoffa...tutto è tangibile e reale, ha peso e spessore specifico, ha gravità e profondità eppure è, anche, fantasmico e ieratico, "ordinato" da una consistenza geometrica che non può che essere mentale, manifestamente filosofica ed emotiva, puramente emozionale.

La composizione e le prospettive talvolta sono, coerentemente ad un tale assunto, spiazzanti e geometricamente anomale, con punti di fuga e centri di gravità eccentrici, destabilizzanti, vertiginosamente inclinati verso un altrove che rimane misterioso e che rimanda a topografiche quasi oniriche, a spazi interiori, a lente allucinazioni della memoria. Anche l'eros, che può accendersi nell'ombra di una piega di carne, nel guizzo d'un muscolo, nella luce languida di un abbandono, è consegnato ad una immobilità,ambigua, ad una "distanza" che lo filtra, che lo trasfigura. Giorgio Seveso

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