C’è una
sorta di ritegno a parlar d’arte in questa stagione che vede eventi di valenza
tale da arrivare ad ingombrare la mente e l’anima di ciascuno. Gli avvenimenti
recenti sembrano rappresentare quegli scarti improvvisi della storia, quasi
volessero costringerci ad abbandonare quelle sicurezze e quelle forme consuete
del vivere che, proprio perché appunto consuete, ci avevano quasi disabilitato
dalla riflessione sottile e dal pensiero profondo.
Fuori dal
chiacchiericcio retorico che accompagna solitamente i fatti clamorosi, tutti
avvertiamo che le parole per rappresentare la realtà cominciano a non bastare
più. Il nostro descrivere si ritrova improvvisamente privo delle sicure e
acquietanti formule di definizione dell’esistente, che fino a ieri
accompagnavano il consueto scorrere della vita. Sebbene la nostra vita si
riproponga nei suoi gesti e nelle sue forme apparentemente ordinari, tutti
avvertiamo quella sottile inquietudine che viene dal tremolio dei punti di
riferimento, da quel sottile smarrimento che attraversa il nostro sguardo
sebbene si rivolga alle cose note e d’ogni giorno. Tutto conosce
quell’instabilità che sale dalle osservazioni più minute, perché rivolte
alle nostre occupazioni private, per sollevarsi in quella avvertita precarietà
delle formule del vivere comune, che culmina quindi nella fragilità delle
certezze che la nostra civiltà sembrava aver solidamente conquistato una volta
per tutte.
È una sorta
di indebolimento di quelle possenti strutture razionali con cui la civiltà
della tecnica ha configurato il
mondo, innalzando, sulle robuste colonne della scienza, quel tempio in cui si
celebrano i riti dell’efficienza, della funzionalità e della perfezione delle
procedure. Nello scintillio tecnologico trovano illusorio fulgore i sistemi di
relazione tra gli uomini che le regole della tecnica veste di appariscenti
bagliori, che forse proprio nella loro rilucenza nascondono in realtà
l’abbaglio accecante.
E così
abbiamo scoperto che troppa luce non illumina, perché toglie quelle sfumature
dell’ombra che, nel suo distendersi sopra le cose, ne permette la rivelazione
dei dettagli, ne descrive i
particolari, ne qualifica le forme, che riveleranno così di ciascun essere la
sua preziosa e insostituibile individualità. Ma soprattutto come l’unicità
d’ogni essere, che luce ed ombra finemente qualificano, possa trovar
significato solo in relazione con il resto dell’esistente, con cui interagirà
scambiando quella ricchezza di senso che ogni cosa custodisce.
Ma se
questa è la piega che gli eventi potrebbero imporre al pensiero razionale, noi
sappiamo che, in realtà, questo è il territorio familiare all’arte. Per cui
ci auguriamo che non si chieda agli artisti la rappresentazione in immagine
prosaica dell’inquietudine che ci percorre, affinché anche l’arte non scada
in quella sterilità che è già dell’abbondante verbosità retorica di questi
tempi. L’arte ha invece qui l’occasione di offrire ancora agli uomini
semplicemente il suo esistere, pervasa com’è da quella follia che la rende
così contigua agli dei. Che è quell’estro che coglie gli artisti quando si
rivolgono all’esistente, mai giudicandolo in giusto o sbagliato, mai
distinguendolo in categorie morali di buono o cattivo, ma inseguendolo da
corteggiatori raffinati perché ciascun essere, vinto dall’amore
dell’artista, sveli anche solo una delle mille storie che custodisce.
Nell’atteggiamento
dell’artista non c’è una ragione coercitiva, non c’è un sistema
culturale imperante, non c’è un approccio scientifico soffocante. C’è
quella qualità che modella lo scambio amoroso tra artista e materia senza che
nessun dei due prevarichi. Altrimenti avremmo dimostrazioni e non spettacoli.
Altrimenti avremmo spiegazioni e non ondulata e intrigante seduzione narrativa.
In altre parole, avremmo un discorso sui sensi e sull’anima e non,
dell’anima, la sua narrazione sensibile.
Certo
è una condizione estrema o forse, meglio definirla come quella qualità che non
è di tutti. Sarà per questo che, in antico, si sospettò che un dio abitasse
la mente degli artisti.
E
allora è proprio nelle crepe che l’inquietudine d’oggi dirama nelle mura
della popolosa città tecnologica, che questa apparente follia dell’arte può
insinuare la sua linfa feconda: che è quella degli artisti che non hanno mai
rinunciato a rincorrere i sensi profondi dell’esistente, per vederne gli
aspetti più imprevedibili dal comune sapere, con quello sguardo avido e buono
ad un tempo, che è di coloro che amano le cose anziché possederle. Certo la
voce dell’arte è debole perché modulata, ma è la testimonianza che alimenta
la speranza che ancora ci può essere musica e non solo rumore.