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La troppa luce non illumina
editoriale per il n° 49 di "Grafica d'Arte", Gennaio-Marzo 2002

 

C’è una sorta di ritegno a parlar d’arte in questa stagione che vede eventi di valenza tale da arrivare ad ingombrare la mente e l’anima di ciascuno. Gli avvenimenti recenti sembrano rappresentare quegli scarti improvvisi della storia, quasi volessero costringerci ad abbandonare quelle sicurezze e quelle forme consuete del vivere che, proprio perché appunto consuete, ci avevano quasi disabilitato dalla riflessione sottile e dal pensiero profondo.

Fuori dal chiacchiericcio retorico che accompagna solitamente i fatti clamorosi, tutti avvertiamo che le parole per rappresentare la realtà cominciano a non bastare più. Il nostro descrivere si ritrova improvvisamente privo delle sicure e acquietanti formule di definizione dell’esistente, che fino a ieri accompagnavano il consueto scorrere della vita. Sebbene la nostra vita si riproponga nei suoi gesti e nelle sue forme apparentemente ordinari, tutti avvertiamo quella sottile inquietudine che viene dal tremolio dei punti di riferimento, da quel sottile smarrimento che attraversa il nostro sguardo sebbene si rivolga alle cose note e d’ogni giorno. Tutto conosce quell’instabilità che sale dalle osservazioni più minute, perché rivolte alle nostre occupazioni private, per sollevarsi in quella avvertita precarietà delle formule del vivere comune, che culmina quindi nella fragilità delle certezze che la nostra civiltà sembrava aver solidamente conquistato una volta per tutte.

È una sorta di indebolimento di quelle possenti strutture razionali con cui la civiltà della tecnica  ha configurato il mondo, innalzando, sulle robuste colonne della scienza, quel tempio in cui si celebrano i riti dell’efficienza, della funzionalità e della perfezione delle procedure. Nello scintillio tecnologico trovano illusorio fulgore i sistemi di relazione tra gli uomini che le regole della tecnica veste di appariscenti bagliori, che forse proprio nella loro rilucenza nascondono in realtà l’abbaglio accecante.

E così abbiamo scoperto che troppa luce non illumina, perché toglie quelle sfumature dell’ombra che, nel suo distendersi sopra le cose, ne permette la rivelazione dei dettagli,  ne descrive i particolari, ne qualifica le forme, che riveleranno così di ciascun essere la sua preziosa e insostituibile individualità. Ma soprattutto come l’unicità d’ogni essere, che luce ed ombra finemente qualificano, possa trovar significato solo in relazione con il resto dell’esistente, con cui interagirà scambiando quella ricchezza di senso che ogni cosa custodisce.

Ma se questa è la piega che gli eventi potrebbero imporre al pensiero razionale, noi sappiamo che, in realtà, questo è il territorio familiare all’arte. Per cui ci auguriamo che non si chieda agli artisti la rappresentazione in immagine prosaica dell’inquietudine che ci percorre, affinché anche l’arte non scada in quella sterilità che è già dell’abbondante verbosità retorica di questi tempi. L’arte ha invece qui l’occasione di offrire ancora agli uomini semplicemente il suo esistere, pervasa com’è da quella follia che la rende così contigua agli dei. Che è quell’estro che coglie gli artisti quando si rivolgono all’esistente, mai giudicandolo in giusto o sbagliato, mai distinguendolo in categorie morali di buono o cattivo, ma inseguendolo da corteggiatori raffinati perché ciascun essere, vinto dall’amore dell’artista, sveli anche solo una delle mille storie che custodisce.

Nell’atteggiamento dell’artista non c’è una ragione coercitiva, non c’è un sistema culturale imperante, non c’è un approccio scientifico soffocante. C’è quella qualità che modella lo scambio amoroso tra artista e materia senza che nessun dei due prevarichi. Altrimenti avremmo dimostrazioni e non spettacoli. Altrimenti avremmo spiegazioni e non ondulata e intrigante seduzione narrativa. In altre parole, avremmo un discorso sui sensi e sull’anima e non, dell’anima, la sua narrazione sensibile.

Certo è una condizione estrema o forse, meglio definirla come quella qualità che non è di tutti. Sarà per questo che, in antico, si sospettò che un dio abitasse la mente degli artisti.

E allora è proprio nelle crepe che l’inquietudine d’oggi dirama nelle mura della popolosa città tecnologica, che questa apparente follia dell’arte può insinuare la sua linfa feconda: che è quella degli artisti che non hanno mai rinunciato a rincorrere i sensi profondi dell’esistente, per vederne gli aspetti più imprevedibili dal comune sapere, con quello sguardo avido e buono ad un tempo, che è di coloro che amano le cose anziché possederle. Certo la voce dell’arte è debole perché modulata, ma è la testimonianza che alimenta la speranza che ancora ci può essere musica e non solo rumore.

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