A Firenze, nel XV secolo, non esistevano i giornali, tanto meno la
televisione. I partiti politici (che di solito coincidevano con dinastie
famigliari) non disponevano quindi dei moderni mezzi di comunicazione di massa
per persuadere l’opinione pubblica. Per questo il “partito” mediceo pagava
alcuni personaggi affinché diffondessero tra la gente quei “si dice” che tanto
trovavano ascolto tra il popolino, che così poteva venir orientato nelle sue
opinioni. Questa figura veniva chiamata “mestatore”. Costui era un personaggio
scaltro, ammiccante, dalla parlantina facile e dalla mimica persuasiva. Con lo
scorrere dei secoli assistiamo alla trasformazione “professionale” del mestatore
quando questo personaggio pensò bene di sfruttare la credulità popolare e si
mise in proprio. Anche l’argomento dei suoi discorsi cambiò e dagli argomenti
politici passò alla medicina. Valendosi della sua facondia decantava e spacciava
medicamenti portentosi (che di solito erano acqua fresca colorata), vendeva cose
da nulla descrivendole come reliquie miracolose, e, quando incontrava una piazza
particolarmente scettica, si adattava ad estrarre denti. Anche il suo nome
cambiò e da mestatore la gente passò a chiamarlo «ciarlatano». Queste figure a
noi paiono scomparse, ma se ci pensate bene in realtà sono integralmente
sopravvissute solo che, invece che di politica e di medicina, oggi si occupano
d’arte. Anche il loro nome è cambiato: oggi si chiamano «televenditori» o
«esperti d’arte». Intendiamoci, non vogliamo generalizzare, non tutti gli
esperti e i venditori d’arte sono ciarlatani, ma certo è che il mondo dell’arte
ne ospita parecchi impunemente.
Abbiamo provato tutti ad assistere ad una vendita televisiva di opere
d’arte. Sono trasmissioni solitamente notturne e, per effetto del torpore che ci
prende in quelle ore, diveniamo più tolleranti nei confronti del linguaggio con
cui ci vengono presentate le opere. Ma se provassimo a prendere sul serio quello
che ci viene detto potremmo scoprire che spesso l’eloquio iperbolico del
presentatore diviene una vera e propria pantomima comica. Qualunque sia la
qualità dell’opera ci viene detto (o meglio ci viene ripetuto ossessivamente)
che si tratta di un’opera introvabile sul mercato, che noi siamo gli unici
fortunati che possono entrare in possesso di quello che è ambito da tutti i
musei del mondo, ma che se siamo svelti a telefonare avremo un pezzo di storia
dell’arte che entra in casa nostra. Naturalmente il prezzo è da scontare e
quindi i milioni di euro che avrebbe speso un museo, per noi, fortunati
spettatori, diventano poche migliaia.
Il linguaggio è del tipo più sconcertante: le parole, si ripetono
ossessive, con aggettivazioni enfatiche con locuzioni del tipo «ma come fate a
lasciarvela scappare», «un’occasione così non vi capita più», «tra qualche anno
varrà dieci volte quello che oggi pagate». Ma il momento più comico è quando ci
viene detto che l’opera è “pubblicata”, mostrandoci una monografia dell’artista,
e invitandoci a credere che, per questo, quell’opera appartiene alla storia
dell’arte. Come se a tutti noi bastasse farsi stampare una monografia per
entrare dritti nell’olimpo della Storia. Il momento culminante dell’effetto
comico è spesso la zummata della telecamera su un grumo di colore di un’opera
indecifrabile, che fa scattare l’esaltazione del televenditore che, estatico e
rapito, ripete ossessivamente: «guardate che roba!, guardate cos’è questo blu!
guardate il gesto, signori miei, siamo di fronte ad una macchia ...epocale (sic!)».
Ma la televisione non è l’unica arena che talvolta ospita gli eredi
dei ciarlatani d’un tempo: lo sono anche certi cataloghi o dépliants di pittori
dilettanti che vengono innalzati dal critico d’occasione (prezzolato) a livello
di indiscussi maestri contemporanei. Assistiamo così a pasticci dipinti, a
scarabocchi improvvisati che ci vengono descritti come profonde riflessioni sui
turbamenti più reconditi del nostro animo, con il critico presentatore che
sciorina iperboliche espressioni frammiste a citazioni raccogliticce, frutto
delle sue reminiscenze scolastiche. Dagli impressionisti in giù, da quando cioè
la necessità della maestria è andata sempre più scemando, non c’è dilettante che
non possa venir accostato ad una corrente moderna o contemporanea di successo, e
quindi il critico imbonitore può spacciare il pittorello come un partecipante
all’impegnativo crogiuolo poetico contemporaneo. È un po’ come fanno certi
poeti improvvisati che scrivono una serie di frasi comuni e pensano di comporre
versi poetici “moderni” semplicemente andando a capo più volte del dovuto.
Ma l’imbonitore più impudente è spesso un personaggio di fama
riconosciuta, che si aggira tra pulpiti televisivi, redazioni di prestigiosi
cataloghi di pubbliche mostre ed è spesso estensore di pesanti interventi nelle
pagine culturali dei quotidiani. Il suo gioco è sottile e ricattatore: di fronte
al probabile nostro stupore nel veder decantato quello che ci appare come una
misera cosa, egli carica il proprio linguaggio con metaforiche espressioni, con
locuzioni oscure che possono confonderci. Qualora ci ostinassimo a valutare come
stupidaggine quello che ci viene presentato, ecco allora il classico ricatto
finale, che consiste nella famosa frase «lei non se ne intende di arte
contemporanea». Se non ci credete ecco un esempio: un artista russo, Oleg Kulik,
propone l’opera I bite America and America bites me nella Deitch Projects
di New York. L’opera consiste nell’artista stesso, completamente nudo, legato
al collo con una catena, in posizione a quattro zampe, col sedere all’insù, che
tenta di mordere chiunque gli si avvicini. Ecco come ci viene descritto nel
catalogo che ospita la performance «...Kulik offre allo spettatore un
intrattenimento voyeristico denso di provocazione, ambiguità e ambivalenza. Nel
tentativo di instaurare un dialogo tra l’uomo e l’animale, Kulik cerca di
sottolineare la necessità di creare una società basata sulla simbiosi tra Natura
e Umanità, interrogandosi su che cosa significhi per un uomo “essere uomo”...».
Tremila anni di filosofi non ci sono riusciti, ma, stiamo tranquilli, è arrivato
Kulik! Lui ci chiarisce tutto sulla simbiosi tra Uomo e Natura e ci mostra cosa
significhi essere uomini. Ma non è solo l’estensore del catalogo a
contrabbandare per filosofia le callipigie terga dell’artista in questione,
anche un critico di fama internazionale, inventore di una delle correnti più
chiassose del panorama contemporaneo, ce la mette tutta e così si esprime (tra
parentesi quadre cercherò di spiegare il suo linguaggio). Egli afferma che
questo tipo d’opere (Happening ed Events) costituiscono «...la
vaporizzazione estetica [il dissolversi degli elementi che tradizionalmente
costituiscono le opere d’arte] di un processo creativo che tende a
smaterializzare l’opera e a valorizzare il momento aggregativo tra l’artista e
lo spettatore [Kulik che azzanna le gambe degli spettatori]. Prevale il
valore di partecipazione attiva [lo spettatore si spaventa] che rende
tribale [Kulik fa “grrrr”], sincronica [mentre Kulik fa “grrrr”
contemporaneamente lo spettatore emette gridolini] e sinergetica [scambio
tra la forza del morso di Kulik e il suono prodotto dal gridolino dello
spettatore] l’azione collettiva dell’artista e degli spettatori».
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