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VENZO AUTORE DI SOGGETTI SACRI
(editoriale per il n° 62 di "Grafica d'Arte", Aprile-Giugno 2005 - La rivista è distribuita nelle migliori librerie delle città più importanti)

«Noi siamo come i colori.
Stiamo bene se seguiamo il disegno di Dio».
fratel venzo

 La pittura di soggetto religioso rappresenta un aspetto particolare della produzione artistica di Fratel Venzo sebbene non sia preponderante quantitativamente nel complesso della sua opera pittorica. È però argomento significativo della sua esistenza perché ha coinciso con la svolta determinante della sua vita rappresentata dalla vocazione religiosa. È infatti durante la seconda guerra mondiale che Mario Venzo rientra in Italia da Parigi per entrare nella Compagnia di Gesù, compiendo il noviziato a Lonigo. Trascorre quindi quasi cinque anni senza dipingere mescolando alla meditazione e al silenzio l’umiltà di mansioni in cucina e nella cura del giardino. Sarà il frangente di un momento di salute incerta che suggerirà a chi lo cura di consigliargli di riprendere a dipingere. È quello che fa Mario Venzo, quasi rinnovando la medesima scelta che fu cinque secoli prima di Baccio della Porta. Anche Baccio interruppe la propria attività artistica per cinque anni essendosi fatto frate col nome di Fra Bartolomeo[1] nel convento di San Marco a Firenze che già ospitava le splendide immagini del Beato Angelico.

Ma nel caso di Mario Venzo lo scenario artistico è radicalmente cambiato rispetto alla stagione del Rinascimento: Fratel Venzo si ritrova nel mezzo del secolo delle avanguardie, a metà di quel XX secolo che rappresenta nella storia dell’arte una di quelle epoche in cui si compiono svolte radicali nello stile e nei contenuti dell’arte, paragonabile solo a poche epoche precedenti. Pensiamo ai radicali rivolgimenti dell’arte classica rispetto ai rigidi canoni delle teocrazie egiziane o babilonesi od anche rispetto alle rigidità della Grecia arcaica; così come l’arte medievale rispetto all’espressione della classicità, od anche alla successiva rivoluzione del Rinascimento. Ma questa volta la scena è completamente diversa, non trattandosi più di un semplice rivolgimento stilistico dell’espressione artistica. Per quanto profondi siano stati in passato i mutamenti avvenuti nella storia dell’arte, mai era stato dismesso l’orizzonte figurativo, nel senso della mimesi delle forme di uomini e natura. Fratel Venzo, invece, si trova a vivere a Parigi quella inedita stagione dell’arte che da oltre mezzo secolo si è ritrovata a riflettere su sé stessa, trovando ragioni poetiche ed espressive non solo più nel contenuto delle proprie rappresentazioni, ma inseguendo motivazioni poetiche anche solamente all’interno del fare pittorico puro e semplice, scoprendo elementi di poesia attorno al segno, dentro l’anima del colore, quando non nel puro gesto del dipingere, anche disgiunto dalla necessità di raffigurare soggetti riconoscibili.

È questa nuova sorgente linguistica ed espressiva che Mario Venzo utilizza per metterla al servizio dei contenuti religiosi che inaugurano il suo ritorno alla pittura, dopo gli anni di interruzione del noviziato, e che culmineranno in quella serie di Via Crucis (a Roma nella Curia generalizia dei gesuiti, nella parrocchiale di Prospiano nei pressi di Milano ed altre ancora fino a quella della cappella della Facoltà teologica di Yogykarta, in Indonesia) che rappresenteranno il momento più intenso della sua pittura di contenuto religioso. La passione di Gesù è il tema cui Fratel Venzo si dedicherà per quarant’anni concentrandosi quindi sul nucleo del mistero cristiano che ha nel sacrificio del Figlio di Dio l’evento che riconcilia l’umanità col suo Creatore. Una sorta quindi di trasposizione religiosa della medesima svolta interiore che si compie nell’animo di Mario Venzo all’atto della sua vocazione religiosa, per la quale egli sente completarsi il suo tragitto esistenziale che da quel momento cambia radicalmente l’orizzonte delle sue ragioni del vivere, quasi un rinascere rispetto alle esperienze di vita degli anni precedenti. Sarà forse anche per questo che in alcune delle sue Via Crucis Fratel Venzo aggiunge una quindicesima stazione rispetto alle quattordici della tradizione. In quest’ultima rappresenta la Resurrezione assumendo quindi la completezza teologica della passione di Cristo quale metafora della svolta che si è compiuta nella sua esistenza.

Nelle scene delle stazioni della Via Crucis Fratel Venzo utilizza, come dicevamo, tutti gli strumenti linguistici assorbiti nella sua stagione parigina precedente la sua vocazione. Unisce poi questa originalità di linguaggio, marcatamente espressionistico, della sua pittura di quegli anni all’originalità dei formati utilizzati per le varie stazioni: ora un quadrato, ora un rettangolo, ora orizzontale ora verticale,  innovando anche in questo la tradizione che vuole ogni episodio rappresentato nelle medesime dimensioni. Ad esempio, nella Via Crucis di Prospiano, la quindicesima stazione con La Resurrezione è rappresentata in un campo di spiccata verticalità rispetto alle precedenti, con una evidente metafora di contenuto. Una verticalità dell’immagine che sospinge il gesto trionfale  di Cristo quasi a sottolineare e quindi esaltare l’evento dirompente della vittoria sulla morte, in un acceso turbine di luce dipinta che sovrasta l’opacità della pietra rimossa del sepolcro, come quella nuova luce offerta alla storia con l’evento fondamentale della nuova fede. Abbiamo qui la più puntuale conferma delle impressioni riferite da Paolo Bellini nel suo incontro con Fratel Venzo: «Egli allora mi ha mostrato, ed oggi me lo conferma, che il dipingere può essere un gesto dello spirito»[2].

Così è anche nell’immagine di Gesù crocifisso (1970), dove il corpo di Cristo occupa tre quarti della composizione ed è trattato con quella “rugosità” pittorica con cui Fratel Venzo era uso dipingere i suoi quadri di paesaggio, quasi che sopra quel petto fosse ospitata la stessa materia del mondo che in quel drammatico frangente veniva redento. Una compenetrazione quindi di Natura e di Dio dove le cromie ocra verdastre del corpo paiono trasmutarsi nelle rosate velature del volto, suggerendo una trascendenza che dall’effetto visivo conduce al simbolo sotteso. È come se nell’uso della contrapposizione dei colori complementari fosse racchiusa la soluzione del mistero di come dall’evento di morte di un uomo possa sorgere la salvezza di tutti. La stesura pittorica nel Gesù crocifisso si fa più composta rispetto alle arditezze dei gesti con cui Fratel Venzo dipingeva i suoi paesaggi, forse memore del medesimo atteggiamento di Rouault[3], che fu uno degli artisti suoi di maggior riferimento, quando dipinse il medesimo argomento.

Benché Fratel Venzo affermasse di non fare pittura religiosa, ma d’essere un religioso che fa pittura, bisogna riconoscere che fare pittura d’argomento cristiano nel XX secolo richiede un’inedita necessità da parte dell’artista, che trovi la propria motivazione in una sorgente di convinzione profonda, di radicata adesione o di intrinseco riconoscimento dell’importanza dei valori sottesi alla rappresentazione. Infatti l’arte d’ispirazione cristiana, a partire dal XIX secolo, non gode più dei fasti medievali o rinascimentali, quando l’espressione artistica al servizio dei valori religiosi dava voce e stile al sentimento condiviso della “verità” cristiana, vincente nel Medioevo, universale nel Rinascimento e finalmente trionfante nel turbinio celeste delle volte delle chiese barocche.

Per più di un millennio l’arte di contenuto religioso ha coniugato così il proprio linguaggio con il sentire “ecclesiale” del proprio tempo, quasi che le forme dell’espressione artistica dessero vita non ad un contesto formale di variazioni puramente stilistiche, ma configurassero di volta in volta forme nuove della medesima «città di Dio». Quel Dio che avendo voluto incarnarsi nel proprio Figlio, abita da quel momento la città degli uomini, e gli uomini riconoscendone la presenza, danno forma ed espressione a questa convivenza. Una forma ed un’espressione che si rinnova con il mutare della Storia, se è vero che incarnandosi, Dio è partecipe della storia degli uomini, così come è stata la sua volontà, che è quella di «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra»[4].

Succede così che la luce del cristianesimo che squarcia il buio del tramonto dell’impero romano, spento dalle invasioni barbariche, risplende nei rilucenti mosaici di Ravenna o di San Marco a Venezia, così come è benissimo riassunto dall’antica iscrizione nella Cappella Arcivescovile dell’Oratorio di Sant’Andrea a Ravenna: aut lux hic nata est, aut capta hic libera regnat (o la luce qui è nata o, fattavi prigioniera, qui libera regna). Od anche quando l’indiscussa diffusione del cristianesimo medievale trionfava nelle imponenti figure del Cristo pantocratore delle absidi delle chiese o la rinnovata “carnalità” delle figure giottesche dava forma alla popolarità dello spirito francescano. Anche l’introduzione degli stilemi della classicità nel Rinascimento avviene come un fecondo innesto che genera le nuove e poderose forme della rinascenza e non sarà quindi come lo stanco recupero neoclassico della pittura religiosa dell’inizio dell’Ottocento. Questo declino dell’offerta figurativa religiosa nel panorama dell’arte degli ultimi due secoli conosce i suoi prodromi nelle “gran macchine” decorative nelle chiese barocche, dove l’esuberanza degli empirei che vestivano le volte delle chiese non facevano più distinguere se si trattasse di paradisi cristiani o visioni dell’Olimpo pagano. La presenza della pittura d’argomento religioso nella storia dell’arte si riduce così a pesante decorazione e rinuncia ad essere protagonista del rinnovamento in corso a partire dalle avanguardie di metà del secolo XIX: «...un unico cielo ospitava Cristo e Maria, Giove e Giunone, santi storici assieme a figure allegoriche, battaglie antiche e moderne, un cielo di personaggi estatici con gli occhi verso l’alto, tutti grandi, belli e nobili, michelangioleschi o raffaelleschi [...]. Chi entrava in chiesa s’aspettava di trovare un glorioso cielo dipinto e, avvertitene le nubi e la configurazione generale, non lo guardava più»[5].

Ecco allora in cosa consiste la “novità” della pittura d’argomento religioso di Fratel Venzo, che si ritrova quindi a rappresentare una rinnovata vitalità della pittura cristiana al cui servizio mette le novità estetiche, stilistiche e di linguaggio dell’arte sua contemporanea, in particolare quella delle correnti espressionistiche che già si erano affermate in Europa da più di un decennio. Il tutto condotto con quell’umiltà che è degli spiriti autentici, compagno in questo dei sentimenti e delle intenzioni di quel grande artefice della pittura religiosa del suo tempo: ci riferiamo a Georges Rouault che, abbiamo visto, essere uno dei riferimenti artistici di Fratel Venzo. Rouault, infatti, amava dire a proposito dell’uso di un linguaggio pittorico come quello delle avanguardie espressioniste: «Credete che dopo un Tiziano, un Rembrandt, un Giorgione, si possa dipingere a piacimento come un Cimabue?»[6].

Sono quelli gli anni in cui Fratel Venzo assorbe le novità stilistiche e le potenzialità poetiche delle avanguardie, che saranno fondamentali per aggiungere nuova intensità ai temi religiosi dei suoi dipinti. Così come possiamo osservare in un’altra stazione della Via Crucis, quella con l’episodio del Cireneo (1970) che si carica la croce di Cristo sulle spalle. Anche qui il trattamento pittorico delle figure subisce la medesima ruvidezza espressiva con cui viene rappresentato l’ambiente, ancora una volta contaminando sacro e terreno, quasi a simboleggiare che, benché divina, la vicenda drammatica è decisiva per la storia degli uomini di questa terra. Il modernissimo taglio compositivo è quello di mostrare il campo della rappresentazione letteralmente “tagliato” in diagonale dai bracci della croce, e così sfruttando questo ardito ingombro compositivo, l’artista riesce a farci sentire il peso della croce da cui Cristo viene sollevato per la pietà del Cireneo.  

Questa commistione di terreno e di sacro, di umano e divino, si rinnova nell’immagine di Cristo nell’orto, dove la curva dell’orizzonte dell’ambiente che ospita la figura china di Gesù pare avere il medesimo andamento del suo corpo, ancora una volta a mescolare la storia terrena e l’evento di redenzione che sta per compiersi ed il cui drammatico svolgersi è robustamente rappresentato dai rossi fiammeggianti della veste di Cristo.

Il linguaggio espressionistico moderno trova una delle sue più convincenti manifestazioni nell’opera con la Madonna Addolorata, un tema più volte rappresentato da Fratel Venzo. Qui si propone quell’abbinamento di madre-figlio che solitamente è intriso di dolcezza e sentimento protettivo. Al contrario qui è mostrato nel momento della più alta tragedia, quale quella di Maria che vede il proprio Figlio morire in Croce. Fratel Venzo rompe la plausibilità fisica della scena così come il fare pittorico contemporaneo ormai gli consente: egli infatti accosta il viso di Maria all’altezza di quello di Gesù sulla croce. È nella direzione degli sguardi così ravvicinati che si accresce e potenzia l’intensità del dramma. Ma la compenetrazione dei due personaggi si avvale anche di raffinate proposte linguistico-cromatiche: i toni ed i colori del volto di Maria sono i medesimi con cui è rappresentato il corpo di Gesù, quasi che la pittura si sforzi di riproporre un’identità di carne e di reciproca appartenenza al divino, mentre suggerisce anche come entrambe siano protagonisti del medesimo dramma umano. I visi sono al centro della scena, in maniera da oltrepassare la semplice narrazione del dolore e riproporre così il potente legame che esiste tra una madre ed il proprio figliolo. La diade madre-figlio è universalmente riconosciuta come una delle relazioni più profonde e significative nell’esperienza di ogni umano. È l’esperienza che coglie ciascun vivente all’esordio della sua esistenza e dunque è contraddistinta da quei caratteri originari che la rendono fondante nello sviluppo della vita e della formazione degli uomini. Ha confini delimitati da sentimenti di necessità, nutrimento, tenerezza e bontà. La maternità è quel territorio contemporaneamente avvolto dal mistero e insieme sicuro: ha infatti a che fare con l’origine della vita, che prima che la scienza si rivolgesse all’evento con il proprio sguardo “disincarnato”, è rimasto quel potente e fantastico motore che ha alimentato le mitologie più affascinanti. Ma il “materno” è anche il luogo che suscita quei sentimenti di accoglienza e protezione, che acquieta tensioni, che avvolge con cura amorosa e a cui si riconducono i sensi di un tranquillo e sicuro abbandono. Se l’immagine della maternità è proposta attraverso la figura di Maria e di Gesù, ecco che tutti i componenti emotivi del rapporto madre-figlio umanizzano il mistero dell’incarnazione di Dio, avvicinandolo alla sensibilità di chiunque, rendendo “domestico” il dirompente annuncio del Cristianesimo che rivela come Dio abbia scelto di farsi uomo.

Fratel Venzo in quest’opera raggiunge tutti questi registri espressivi, avvalendosi dell’energia poetica che un linguaggio pittorico espressionistico potenzia e agevola, così come ormai aveva potuto osservare ed apprendere nel panorama artistico parigino negli anni precedenti la sua vocazione.

Trovarsi a Parigi negli anni ’30 in compagnia di Giorgio De Chirico, Mario Tozzi e di Filippo De Pisis, significa essere in quel fecondo crogiuolo dove si fondono le ultime energie delle avanguardie storiche della pittura del ‘900, respirando quell’aria che ha visto ormai la tumultuosa stagione dei fauves, i significativi rivolgimenti cubisti, i clamori dei futuristi, le rarefatte atmosfere della metafisica, le turbolenti proposte surrealiste ed anche i più quieti “ritorni all’ordine”, che verranno di nuovo sconvolti dalle sterzate della poetica di Picasso culminante nei grigi contorcimenti di Guernica.

Sono gli anni in cui Mario Venzo vive a Montparnasse conoscendo le prime difficoltà di sopravvivenza per le incomprensioni familiari attorno alla sua scelta artistica che comportarono la sospensione degli aiuti economici paterni. L’ostinazione con cui Venzo persegue la propria attività rivela la radicata convinzione delle proprie decisioni e già segnala la ferma coerenza del suo carattere nel perseguire con intensità ed a qualunque costo gli scopi delle proprie scelte. Non si tratta di una lettura romantica del “pittore incompreso” che sfida le difficoltà della sopravvivenza pur di inseguire il proprio delirio. In realtà è una condizione che rivela come la pratica d’arte risponda ad una necessità assoluta in colui che la vive autenticamente, uno stato di necessità ineluttabile come è l’acqua per le creature del mare o l’aria per quelle del cielo, non essendo quello dell’artista un mestiere bensì una maniera del vivere.  È questa una condizione che diviene clamorosamente evidente negli anni in cui Mario Venzo vive la stagione delle avanguardie parigine, quella stagione che iniziata negli ultimi anni dell’Ottocento, ha visto la vita dell’artista ubbidire esclusivamente al proprio “demone”, non conoscendo ancora le convenienze mercantili dei nostri giorni e non avendo più la sicurezza d’una committenza da soddisfare.

Da qui la garanzia che l’arte smette i suoi possibili aspetti di “mestiere”, per liberarsi verso quell’unica condizione del far poesia con la materia e con i colori. È la stagione appunto delle avanguardie storiche del ‘900, vissute con intensità da Mario Venzo, durante la quale si chiede alla materia ed ai colori di oltrepassare quella soglia di plausibilità formale che permetta la semplice riconoscibilità dei soggetti rappresentati per pervenire a quella maggiore rivelazione di senso che le libertà compositive e di rappresentazione consentono.  Sono gli anni in cui Venzo trova i propri stimoli in Gauguin, Van Gogh, Cézanne e Rouault, percorrendo quindi quel tragitto poetico che quei maestri avevano indicato: la natura da quel momento non è più solo scenario per una sterile mimesi delle sue bellezze, ma feconda fonte per la liberazione dei suoi sensi più nascosti, considerando l’esistente non più come un oggetto inerte offerto alla propria osservazione ma come un soggetto con cui entrare in rispettosa relazione. Attraverso quei maestri e con l’esempio del loro liberante linguaggio pittorico Venzo si rivolge alla natura con quel delicato e rispettoso atteggiamento di chi si pone all’ascolto, per sentire il dire d’ogni cosa, tanto quanto ne possa recepire e quindi svelare. Non chiude il soggetto nella gabbia d’un giudizio (bello-brutto, vero-falso, ecc.) consentendo alle cose quella libertà espressiva cui in seguito si presta un’attenzione quasi religiosa. È in questa condizione per la quale le cose del mondo si liberano dalla funzionalità costringente. Il loro corpo si apre allo sguardo dell’artista raccontandogli le mille storie che finora ha custodito. Il corpo dei pigmenti, ogni materia apre narrazioni seducenti, oltre la loro apparente fisicità, funzionalità, plasmabilità. L’artista li sollecita ed interroga avido, rispettoso e innamorato. Dà loro voce non solo attraverso una sapiente procedura tecnica, ma anche spesso dando evidenza al gesto pittorico, come spesso ci mostrano le opere di Venzo di quel periodo, dove i grumi della materia del colore ed il segno rivelato dal gesto sulla superficie dipinta offrono una nuova e più affascinante possibilità narrativa al corpo delle cose. E loro, così amate, diranno. Se il soggetto è il corpo umano si può giungere alla passione  che spiega allora perché ormai fare il pittore non sia più solo un mestiere, ma una costringente scelta di vita.

Di fronte a questi imperativi dell’esistenza assume un maggior senso la scelta di vita religiosa compiuta da Mario Venzo, che spiega come il linguaggio artistico delle avanguardie si sia caricato di una rinnovata possibilità di espressione del senso, così come, a partire da Cézanne, si svilupperà fino alle maniere espressioniste utilizzate da Fratel Venzo. L’artista potrà quindi utilizzarle al servizio dei temi religiosi per una loro inedita e rinnovata possibilità di rivelazione dei misteri contemplati.

Quanta maggior pietà è infatti suscitata dall’opera Gesù e la Veronica (1980), grazie a quella modernissima composizione in cui Fratel Venzo fa emergere il volto di Cristo da una rappresentazione dell’ambiente quasi astratta, esaltando questo isolamento del volto divino “rubato” dalla pietà della Veronica con il contrasto cromatico della “terrignità” dei toni con cui è trattato il paesaggio ed il candido ondeggiare del tessuto sopra alle geometriche forme dell’ambiente in cui si svolge la scena. Il tutto chiuso nell’intreccio formato dalla curva del corpo della donna e dai bracci della croce, che paiono nascondere il viso di Gesù mentre sale il Calvario, quasi a sottolineare il pietoso frangente per il quale di Lui sola ci rimarrà l’immagine che la pietà della Veronica ha permesso di carpire.

 Od anche quel profilo di montagne che tanto ricorda la Montaigne S. Victoire di Cézanne nell’opera che rappresenta San Paolo Apostolo. Qui la novità è anche nella scelta degli argomenti, come quella luce simbolica che lampeggia sul manto dell’apostolo a sostituire quella più narrativa delle tradizionali rappresentazioni della folgorazione sulla strada di Damasco. Od anche la scelta del bastone che sostiene il cammino di San Paolo in luogo del tradizionale attributo della spada, quasi a mostrare come la parola di Dio propagandata dal peregrinare dell’Apostolo rappresenti un nuovo robusto riferimento per le speranze dell’umanità: non quindi nuova regola coercitiva ma confortante sostegno per la vita di chi quel verbo ascolterà.

Fratel Venzo contribuisce così a dare cittadinanza ai temi sacri nell’ambito dell’espressione artistica contemporanea, rinnovando quel millenario tragitto dell’arte cristiana, generata dall’unica fede religiosa che ha consentito la produzione di immagini sacre, se prendiamo in considerazione le credenze sopravvissute al tramonto dell’Olimpo della civiltà classica. Il Cristianesimo è infatti contraddistinto dalla possibilità di rappresentare la divinità, i santi e le scene riferite alle sacre scritture, anche per consuetudini di devozione privata. Nelle civiltà religiose mediterranee, il cristianesimo rimane quindi un’isola “figurativa”, essendo iconoclasta la religione ebraica, cosi come quella musulmana. Anche le comunità di culto ortodosso, pur ammettendo la rappresentazione di figure sacre, sviluppano un’iconografia dal linguaggio rigido e immutabile[7] (le icone), che non ha conosciuto gli innumerevoli e straordinari sviluppi dell’arte cristiana[8]. Persino il protestantesimo, dal XVI secolo, si è aggiunto alle fedi iconoclaste, anche se la motivazione dell’orientamento di rifiuto delle immagini di quest’ultima confessione fu causata forse più da una reazione all’accusa di simonia rivolta alla gerarchia cattolica (per il commercio di immagini sacre e delle indulgenze), che non per ubbidire al dettato dell’Antico Testamento: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra»[9].

Con un imperativo e categorico comando di tal fatta, è immaginabile quale lacerazione si sia prodotta tra i fedeli dei primissimi secoli di diffusione del cristianesimo, circa l’utilizzo di immagini sacre. Soprattutto immaginiamo il disagio dei fedeli di origine greca e romana[10], immersi in culture che attribuivano grande importanza alle immagini per il culto[11]. Sorse così una diatriba dagli accenti radicali[12], sostenendo gli iconoclasti come l’immagine fosse suscitatrice di una devozione e di pratiche d’adorazione che si originavano dai sensi, quindi dal luogo dove meno si trovano le energie spirituali dell’uomo, in assonanza con il giudizio di San Paolo: «opera carnis, quae sunt fornicatio, immunditia, impudicitia, luxuria, idolorum servitus»[13].

Ma i favorevoli alle immagini per il culto ebbero la vittoria sugli iconoclasti[14], sostenendo come non fosse l’immagine l’oggetto dell’adorazione del fedele, ma come questa fosse solo strumento e tramite per l’obiettivo trascendentale cui l’immagine rimandava.

A favorire l’accettazione popolare del legittimo uso delle immagini verrà in soccorso la leggenda che narra di come persino San Luca, l’estensore di uno dei quattro vangeli, fosse un pittore e che avesse addirittura eseguito il ritratto alla madre di Gesù[15]. A chiudere definitivamente il discorso a favore dell’uso delle immagini sacre, interverrà infine l’autorevole pensiero di San Tommaso d’Aquino. Nella sua Summa Theologica egli dedica una particolare attenzione all’argomento delle immagini sacre, legittimandone l’esistenza anzi propugnandone la necessità. Ne indica anche le tre ragioni fondamentali che ne giustificano l’utilità: 1) ad istructionem rudium; 2) ut incarnationis mysterium et sanctorum exempla magis in memoria nostra maneant; 3) ad excitandum devotionis affectum[16]. Quest’ultimo punto è quindi la definitiva legittimazione anche del veicolo dei sensi (affectum) per giungere al sentimento di devozione.

Ecco allora perché riteniamo l’opera di Fratel Venzo perfettamente allineata con le più alte ed autorevoli motivazioni dell’arte religiosa che qui abbiamo richiamato, arricchendosi come fa il suo lavoro delle rinnovate e potenziate possibilità d’espressione del senso che il linguaggio pittorico del XX secolo consente. Solo che per Fratel Venzo non si trattava solo di trovare questa feconda coincidenza espressiva tra l’altezza dell’argomento sacro e la nuova possibilità di rivelazione del linguaggio pittorico contemporaneo. Se per gli artisti il dipingere è una maniera del vivere ecco allora che nella pittura d’argomento religioso meglio s’incarna l’esperienza della vocazione di Fratel Venzo. In questo si trova il toccante significato delle sue espressioni: «Ho tanto camminato, tanto lavorato e sofferto per trovare il senso vero dei miei giorni. Non fu facile Signore. Credevo nella bontà e nella bellezza delle creature come ragione del mio esistere. È stato necessario che la sofferenza creasse dentro il cuore vuoti incolmabili perché la tua luce potesse entrarvi...»[17].


[1] «Stavasi Fra Bartolomeo in convento, non attendendo ad altro che agli ufficj divini e alle cose della regola, ancorchè pregato molto dal priore e dagli amici suoi più cari che e’ facesse qualche cosa di pittura, ed era già passato il termine di quattro anni che egli non aveva voluto lavorar nulla...», G. Vasari, Vite, tomo IV, pagg. 182-183, a cura di g. milanesi, Sansoni, Firenze 1981.

[2] Paolo Bellini, Venzo: l’uomo e l’artista, in P. Bellini e R. De Grada, Fratel Venzo. Antologia di pittura, Librex, Milano 1986.

[3] «È curioso notare come Rouault, tanto abituato alle figure sconvolte e deformate [...] non abbia fatto uso di questa sua tecnica violenta nel soggetto specifico della crocifissione. Forse egli nella sua sensibilità avvertiva che un crocifisso irregolare e straziato portava con sé qualcosa di artefatto e di banale, in definitiva di non creduto né vissuto, che sarebbe risultato alla fine una pietosa menzogna alla stessa religione.», in P. Bellini, Georges Rouault. Uomo e artista, pag. 133, Salamon e Augustoni edit., Milano 1972.

[4] S. Paolo, Efesini, 1, 10.

[5] T. Verdon, L’arte sacra in Italia, pag. 309, Mondadori, Milano 2001.

[6] P. Bellini, Georges Rouault. Uomo e artista, op. cit., pagg. 48-49.

[7] «...l’arte medievale [...] in Occidente non è mai giunta alla rigida sistematicità toccata dalla pittura ecclesisatica bizantina...», in J. von Schlosser, L’arte del Medioevo, p. 82, Einaudi, Torino 1989.

[8] «Per quanto riguarda la fattura di queste opere [...] la tradizionale soggezione ai modelli finì per incidere proprio sulle forme, che nella loro meccanica ripetizione si andarono irrigidendo e schematizzando sempre più», in P. Belli D’Elia, L’immagine di culto, dall’icona alla tavola d’altare, in C. Bertelli, La pittura in Italia. L’altomedioevo, p. 380, Electa, Milano 1994.

[9] Esodo, 20, 4.

[10] «...presso i primi cristiani [l’immagine] era ancora legata alle tipologie pagane e che si cercava di accordare invece alle dottrine cristiane...», in A. Grabar, Le origini dell’estetica medievale, p. 87, Jaca Book, Milano 2001.

[11] «Le prime rappresentazioni allegoriche cristiane (e qui è evidente il legame tra cristianesimo e giudaismo, religione priva di immagini) si mostrano timide e diffidenti nei riguardi della figura umana, e non soltanto perché essa era un uso pagano», in J. von Schlosser, L’arte del Medioevo, op. cit., pag. 36.

[12] «Fra il principio dell’VIII secolo e la metà del IX, una febbre violentissima percorse a più riprese il territorio dell’Impero Romano d’Oriente. Come racconta un contemporaneo, intere città e moltitudini di popolo erano in perpetua agitazione, da una parte e dall’altra, per la questione delle immagini; e la lotta degli iconoclasti coi loro nemici, rompendo i confini della mera disputa teologica, coinvolgeva l’esperienza di tutti, e assumeva talora i colori della più recisa intolleranza e di una persecuzione crudele e senza esclusione di colpi.», in S. Settis, Iconografia dell’arte italiana, 1100-1500: una linea, in G. Previtali (a cura di), Storia dell’arte italiana. L’esperienza dell’antico, dell’Europa, della religiosità, pag. 175, Einaudi, Torino 1979.

[13] Lettera di San Paolo ai Galati, qui tratta da S. Settis, Iconografia..., op. cit., pag. 177, Einaudi, Torino 1979.

[14] «Memorabile la processione organizzata (843) da Teodoro, igumeno del monastero di San Giovanni di Studio, per celebrare il definitivo trionfo sull’iconoclastia, alla quale parteciparono mille monaci, ciascuno con una icona in mano», in P. Belli D’Elia, L’immagine di culto..., cit., pag. 375.

[15] Nel vangelo di San Luca hanno molta rilevanza gli episodi dell’infanzia di Gesù. Da qui nacque la tradizione per la quale avrebbe avuto la conoscenza diretta della Madonna. Inoltre «le capacità di acuto osservatore che emergono negli Atti degli Apostoli hanno probabilmente alimentato la leggenda che fosse anche pittore e che avesse realizzato il primo ritratto della Vergine», in R. Giorgi, Luca evangelista, in S. Zuffi, I Dizionari dell’arte. Santi, ad vocem, Electa, Milano 2002.

[16] «per l’istruzione degli incolti (rozzi); affinché il mistero dell’incarnazione e gli esempi che discendono dalla vita dei santi possano meglio restare nella nostra memoria; affinché venga suscitata una forte commozione nel devoto»; in S. Settis, Iconografia dell’arte..., cit., p. 223.

[17] P. Bellini e R. De Grada, Fratel Venzo. Antologia..., op. cit., pag. 64.

 

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