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VENZO AUTORE DI SOGGETTI SACRI
(editoriale
per il n° 62 di "Grafica d'Arte", Aprile-Giugno 2005 - La
rivista è distribuita nelle migliori librerie delle città più importanti)
«Noi siamo come i colori.
Stiamo bene se seguiamo il disegno di Dio».
fratel venzo
La pittura di soggetto religioso rappresenta un
aspetto particolare della produzione artistica di Fratel Venzo sebbene non sia
preponderante quantitativamente nel complesso della sua opera pittorica. È però
argomento significativo della sua esistenza perché ha coinciso con la svolta
determinante della sua vita rappresentata dalla vocazione religiosa. È infatti
durante la seconda guerra mondiale che Mario Venzo rientra in Italia da Parigi
per entrare nella Compagnia di Gesù, compiendo il noviziato a Lonigo. Trascorre
quindi quasi cinque anni senza dipingere mescolando alla meditazione e al
silenzio l’umiltà di mansioni in cucina e nella cura del giardino. Sarà il
frangente di un momento di salute incerta che suggerirà a chi lo cura di
consigliargli di riprendere a dipingere. È quello che fa Mario Venzo, quasi
rinnovando la medesima scelta che fu cinque secoli prima di Baccio della Porta.
Anche Baccio interruppe la propria attività artistica per cinque anni essendosi
fatto frate col nome di Fra Bartolomeo[1] nel convento di San Marco a Firenze che già ospitava le splendide immagini del
Beato Angelico.
Ma nel caso di Mario Venzo lo scenario artistico
è radicalmente cambiato rispetto alla stagione del Rinascimento: Fratel Venzo si
ritrova nel mezzo del secolo delle avanguardie, a metà di quel XX secolo che
rappresenta nella storia dell’arte una di quelle epoche in cui si compiono
svolte radicali nello stile e nei contenuti dell’arte, paragonabile solo a poche
epoche precedenti. Pensiamo ai radicali rivolgimenti dell’arte classica rispetto
ai rigidi canoni delle teocrazie egiziane o babilonesi od anche rispetto alle
rigidità della Grecia arcaica; così come l’arte medievale rispetto
all’espressione della classicità, od anche alla successiva rivoluzione del
Rinascimento. Ma questa volta la scena è completamente diversa, non trattandosi
più di un semplice rivolgimento stilistico dell’espressione artistica. Per
quanto profondi siano stati in passato i mutamenti avvenuti nella storia
dell’arte, mai era stato dismesso l’orizzonte figurativo, nel senso della mimesi
delle forme di uomini e natura. Fratel Venzo, invece, si trova a vivere a Parigi
quella inedita stagione dell’arte che da oltre mezzo secolo si è ritrovata a
riflettere su sé stessa, trovando ragioni poetiche ed espressive non solo più
nel contenuto delle proprie rappresentazioni, ma inseguendo motivazioni poetiche
anche solamente all’interno del fare pittorico puro e semplice, scoprendo
elementi di poesia attorno al segno, dentro l’anima del colore, quando non nel
puro gesto del dipingere, anche disgiunto dalla necessità di raffigurare
soggetti riconoscibili.
È questa nuova sorgente linguistica ed
espressiva che Mario Venzo utilizza per metterla al servizio dei contenuti
religiosi che inaugurano il suo ritorno alla pittura, dopo gli anni di
interruzione del noviziato, e che culmineranno in quella serie di Via Crucis (a Roma nella Curia
generalizia dei gesuiti, nella parrocchiale di Prospiano nei pressi di Milano ed
altre ancora fino a quella della cappella della Facoltà teologica di Yogykarta,
in Indonesia) che rappresenteranno il momento più intenso della sua pittura di
contenuto religioso. La passione di Gesù è il tema cui Fratel Venzo si dedicherà
per quarant’anni concentrandosi quindi sul nucleo del mistero cristiano che ha
nel sacrificio del Figlio di Dio l’evento che riconcilia l’umanità col suo
Creatore. Una sorta quindi di trasposizione religiosa della medesima svolta
interiore che si compie nell’animo di Mario Venzo all’atto della sua vocazione
religiosa, per la quale egli sente completarsi il suo tragitto esistenziale che
da quel momento cambia radicalmente l’orizzonte delle sue ragioni del vivere,
quasi un rinascere rispetto alle esperienze di vita degli anni precedenti. Sarà
forse anche per questo che in alcune delle sue Via Crucis Fratel Venzo aggiunge una
quindicesima stazione rispetto alle quattordici della tradizione. In
quest’ultima rappresenta la Resurrezione assumendo quindi la completezza
teologica della passione di Cristo quale metafora della svolta che si è compiuta
nella sua esistenza.
Nelle scene delle stazioni della Via Crucis Fratel Venzo utilizza,
come dicevamo, tutti gli strumenti linguistici assorbiti nella sua stagione
parigina precedente la sua vocazione. Unisce poi questa originalità di
linguaggio, marcatamente espressionistico, della sua pittura di quegli anni
all’originalità dei formati utilizzati per le varie stazioni: ora un quadrato,
ora un rettangolo, ora orizzontale ora verticale, innovando anche in questo la
tradizione che vuole ogni episodio rappresentato nelle medesime dimensioni. Ad
esempio, nella Via Crucis di
Prospiano, la quindicesima stazione con La
Resurrezione è rappresentata in un campo di spiccata verticalità
rispetto alle precedenti, con una evidente metafora di contenuto. Una
verticalità dell’immagine che sospinge il gesto trionfale di Cristo quasi a
sottolineare e quindi esaltare l’evento dirompente della vittoria sulla morte,
in un acceso turbine di luce dipinta che sovrasta l’opacità della pietra rimossa
del sepolcro, come quella nuova luce offerta alla storia con l’evento
fondamentale della nuova fede. Abbiamo qui la più puntuale conferma delle
impressioni riferite da Paolo Bellini nel suo incontro con Fratel Venzo: «Egli
allora mi ha mostrato, ed oggi me lo conferma, che il dipingere può essere un
gesto dello spirito»[2].
Così è anche nell’immagine di Gesù crocifisso (1970), dove il
corpo di Cristo occupa tre quarti della composizione ed è trattato con quella
“rugosità” pittorica con cui Fratel Venzo era uso dipingere i suoi quadri di
paesaggio, quasi che sopra quel petto fosse ospitata la stessa materia del mondo
che in quel drammatico frangente veniva redento. Una compenetrazione quindi di
Natura e di Dio dove le cromie ocra verdastre del corpo paiono trasmutarsi nelle
rosate velature del volto, suggerendo una trascendenza che dall’effetto visivo
conduce al simbolo sotteso. È come se nell’uso della contrapposizione dei colori
complementari fosse racchiusa la soluzione del mistero di come dall’evento di
morte di un uomo possa sorgere la salvezza di tutti. La stesura pittorica nel Gesù crocifisso si fa più composta
rispetto alle arditezze dei gesti con cui Fratel Venzo dipingeva i suoi
paesaggi, forse memore del medesimo atteggiamento di Rouault[3],
che fu uno degli artisti suoi di maggior riferimento, quando dipinse il medesimo
argomento.
Benché
Fratel Venzo affermasse di non fare pittura religiosa, ma d’essere un religioso
che fa pittura, bisogna riconoscere che fare pittura d’argomento cristiano nel
XX secolo richiede un’inedita necessità da parte dell’artista, che trovi la
propria motivazione in una sorgente di convinzione profonda, di radicata
adesione o di intrinseco riconoscimento dell’importanza dei valori sottesi alla
rappresentazione. Infatti l’arte d’ispirazione cristiana, a partire dal XIX
secolo, non gode più dei fasti medievali o rinascimentali, quando l’espressione
artistica al servizio dei valori religiosi dava voce e stile al sentimento
condiviso della “verità” cristiana, vincente nel Medioevo, universale nel
Rinascimento e finalmente trionfante nel turbinio celeste delle volte delle
chiese barocche.
Per più di
un millennio l’arte di contenuto religioso ha coniugato così il proprio
linguaggio con il sentire “ecclesiale” del proprio tempo, quasi che le forme
dell’espressione artistica dessero vita non ad un contesto formale di variazioni
puramente stilistiche, ma configurassero di volta in volta forme nuove della
medesima «città di Dio». Quel Dio che avendo voluto incarnarsi nel proprio
Figlio, abita da quel momento la città degli uomini, e gli uomini riconoscendone
la presenza, danno forma ed espressione a questa convivenza. Una forma ed
un’espressione che si rinnova con il mutare della Storia, se è vero che
incarnandosi, Dio è partecipe della storia degli uomini, così come è stata la
sua volontà, che è quella di «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del
cielo come quelle della terra»[4].
Succede così che la luce del cristianesimo che
squarcia il buio del tramonto dell’impero romano, spento dalle invasioni
barbariche, risplende nei rilucenti mosaici di Ravenna o di San Marco a Venezia,
così come è benissimo riassunto dall’antica iscrizione nella Cappella
Arcivescovile dell’Oratorio di Sant’Andrea a Ravenna: aut lux hic nata est, aut capta hic
libera regnat (o la luce qui è nata o, fattavi prigioniera, qui
libera regna). Od anche quando l’indiscussa diffusione del cristianesimo
medievale trionfava nelle imponenti figure del Cristo pantocratore delle absidi
delle chiese o la rinnovata “carnalità” delle figure giottesche dava forma alla
popolarità dello spirito francescano. Anche l’introduzione degli stilemi della
classicità nel Rinascimento avviene come un fecondo innesto che genera le nuove
e poderose forme della rinascenza e non sarà quindi come lo stanco recupero
neoclassico della pittura religiosa dell’inizio dell’Ottocento. Questo declino
dell’offerta figurativa religiosa nel panorama dell’arte degli ultimi due secoli
conosce i suoi prodromi nelle “gran macchine” decorative nelle chiese barocche,
dove l’esuberanza degli empirei che vestivano le volte delle chiese non facevano
più distinguere se si trattasse di paradisi cristiani o visioni dell’Olimpo
pagano. La presenza della pittura d’argomento religioso nella storia dell’arte
si riduce così a pesante decorazione e rinuncia ad essere protagonista del
rinnovamento in corso a partire dalle avanguardie di metà del secolo XIX: «...un
unico cielo ospitava Cristo e Maria, Giove e Giunone, santi storici assieme a
figure allegoriche, battaglie antiche e moderne, un cielo di personaggi estatici
con gli occhi verso l’alto, tutti grandi, belli e nobili, michelangioleschi o
raffaelleschi [...]. Chi entrava in chiesa s’aspettava di trovare un glorioso
cielo dipinto e, avvertitene le nubi e la configurazione generale, non lo
guardava più»[5].
Ecco allora in cosa consiste la “novità” della
pittura d’argomento religioso di Fratel Venzo, che si ritrova quindi a
rappresentare una rinnovata vitalità della pittura cristiana al cui servizio
mette le novità estetiche, stilistiche e di linguaggio dell’arte sua
contemporanea, in particolare quella delle correnti espressionistiche che già si
erano affermate in Europa da più di un decennio. Il tutto condotto con
quell’umiltà che è degli spiriti autentici, compagno in questo dei sentimenti e
delle intenzioni di quel grande artefice della pittura religiosa del suo tempo:
ci riferiamo a Georges Rouault che, abbiamo visto, essere uno dei riferimenti
artistici di Fratel Venzo. Rouault, infatti, amava dire a proposito dell’uso di
un linguaggio pittorico come quello delle avanguardie espressioniste: «Credete
che dopo un Tiziano, un Rembrandt, un Giorgione, si possa dipingere a piacimento
come un Cimabue?»[6].
Sono quelli gli anni in cui Fratel Venzo assorbe
le novità stilistiche e le potenzialità poetiche delle avanguardie, che saranno
fondamentali per aggiungere nuova intensità ai temi religiosi dei suoi dipinti.
Così come possiamo osservare in un’altra stazione della Via Crucis, quella con l’episodio
del Cireneo (1970) che si carica
la croce di Cristo sulle spalle. Anche qui il trattamento pittorico delle figure
subisce la medesima ruvidezza espressiva con cui viene rappresentato l’ambiente,
ancora una volta contaminando sacro e terreno, quasi a simboleggiare che, benché
divina, la vicenda drammatica è decisiva per la storia degli uomini di questa
terra. Il modernissimo taglio compositivo è quello di mostrare il campo della
rappresentazione letteralmente “tagliato” in diagonale dai bracci della croce, e
così sfruttando questo ardito ingombro compositivo, l’artista riesce a farci
sentire il peso della croce da cui Cristo viene sollevato per la pietà del
Cireneo.
Questa commistione di terreno e di sacro, di
umano e divino, si rinnova nell’immagine di Cristo nell’orto, dove la curva dell’orizzonte dell’ambiente che
ospita la figura china di Gesù pare avere il medesimo andamento del suo corpo,
ancora una volta a mescolare la storia terrena e l’evento di redenzione che sta
per compiersi ed il cui drammatico svolgersi è robustamente rappresentato dai
rossi fiammeggianti della veste di Cristo.
Il linguaggio espressionistico moderno trova una
delle sue più convincenti manifestazioni nell’opera con la Madonna Addolorata, un tema più
volte rappresentato da Fratel Venzo. Qui si propone quell’abbinamento di
madre-figlio che solitamente è intriso di dolcezza e sentimento protettivo. Al
contrario qui è mostrato nel momento della più alta tragedia, quale quella di
Maria che vede il proprio Figlio morire in Croce. Fratel Venzo rompe la
plausibilità fisica della scena così come il fare pittorico contemporaneo ormai
gli consente: egli infatti accosta il viso di Maria all’altezza di quello di
Gesù sulla croce. È nella direzione degli sguardi così ravvicinati che si
accresce e potenzia l’intensità del dramma. Ma la compenetrazione dei due
personaggi si avvale anche di raffinate proposte linguistico-cromatiche: i toni
ed i colori del volto di Maria sono i medesimi con cui è rappresentato il corpo
di Gesù, quasi che la pittura si sforzi di riproporre un’identità di carne e di
reciproca appartenenza al divino, mentre suggerisce anche come entrambe siano
protagonisti del medesimo dramma umano. I visi sono al centro della scena, in
maniera da oltrepassare la semplice narrazione del dolore e riproporre così il
potente legame che esiste tra una madre ed il proprio figliolo. La diade
madre-figlio è universalmente riconosciuta come una delle relazioni più profonde
e significative nell’esperienza di ogni umano. È l’esperienza che coglie ciascun
vivente all’esordio della sua esistenza e dunque è contraddistinta da quei
caratteri originari che la rendono fondante nello sviluppo della vita e della
formazione degli uomini. Ha confini delimitati da sentimenti di necessità,
nutrimento, tenerezza e bontà. La maternità è quel territorio contemporaneamente
avvolto dal mistero e insieme sicuro: ha infatti a che fare con l’origine della
vita, che prima che la scienza si rivolgesse all’evento con il proprio sguardo
“disincarnato”, è rimasto quel potente e fantastico motore che ha alimentato le
mitologie più affascinanti. Ma il “materno” è anche il luogo che suscita quei
sentimenti di accoglienza e protezione, che acquieta tensioni, che avvolge con
cura amorosa e a cui si riconducono i sensi di un tranquillo e sicuro abbandono.
Se l’immagine della maternità è proposta attraverso la figura di Maria e di
Gesù, ecco che tutti i componenti emotivi del rapporto madre-figlio umanizzano
il mistero dell’incarnazione di Dio, avvicinandolo alla sensibilità di chiunque,
rendendo “domestico” il dirompente annuncio del Cristianesimo che rivela come
Dio abbia scelto di farsi uomo.
Fratel Venzo in quest’opera raggiunge tutti
questi registri espressivi, avvalendosi dell’energia poetica che un linguaggio
pittorico espressionistico potenzia e agevola, così come ormai aveva potuto
osservare ed apprendere nel panorama artistico parigino negli anni precedenti la
sua vocazione.
Trovarsi a Parigi negli anni ’30 in compagnia di
Giorgio De Chirico, Mario Tozzi e di Filippo De Pisis, significa essere in quel
fecondo crogiuolo dove si fondono le ultime energie delle avanguardie storiche
della pittura del ‘900, respirando quell’aria che ha visto ormai la tumultuosa
stagione dei fauves, i significativi rivolgimenti cubisti, i clamori dei
futuristi, le rarefatte atmosfere della metafisica, le turbolenti proposte
surrealiste ed anche i più quieti “ritorni all’ordine”, che verranno di nuovo
sconvolti dalle sterzate della poetica di Picasso culminante nei grigi
contorcimenti di Guernica.
Sono gli anni in cui Mario Venzo vive a
Montparnasse conoscendo le prime difficoltà di sopravvivenza per le
incomprensioni familiari attorno alla sua scelta artistica che comportarono la
sospensione degli aiuti economici paterni. L’ostinazione con cui Venzo persegue
la propria attività rivela la radicata convinzione delle proprie decisioni e già
segnala la ferma coerenza del suo carattere nel perseguire con intensità ed a
qualunque costo gli scopi delle proprie scelte. Non si tratta di una lettura
romantica del “pittore incompreso” che sfida le difficoltà della sopravvivenza
pur di inseguire il proprio delirio. In realtà è una condizione che rivela come
la pratica d’arte risponda ad una necessità assoluta in colui che la vive
autenticamente, uno stato di necessità ineluttabile come è l’acqua per le
creature del mare o l’aria per quelle del cielo, non essendo quello dell’artista
un mestiere bensì una maniera del vivere. È questa una condizione che diviene
clamorosamente evidente negli anni in cui Mario Venzo vive la stagione delle
avanguardie parigine, quella stagione che iniziata negli ultimi anni
dell’Ottocento, ha visto la vita dell’artista ubbidire esclusivamente al proprio
“demone”, non conoscendo ancora le convenienze mercantili dei nostri giorni e
non avendo più la sicurezza d’una committenza da soddisfare.
Da qui la garanzia che l’arte smette i suoi
possibili aspetti di “mestiere”, per liberarsi verso quell’unica condizione del
far poesia con la materia e con i colori. È la stagione appunto delle
avanguardie storiche del ‘900, vissute con intensità da Mario Venzo, durante la
quale si chiede alla materia ed ai colori di oltrepassare quella soglia di
plausibilità formale che permetta la semplice riconoscibilità dei soggetti
rappresentati per pervenire a quella maggiore rivelazione di senso che le
libertà compositive e di rappresentazione consentono. Sono gli anni in cui
Venzo trova i propri stimoli in Gauguin, Van Gogh, Cézanne e Rouault,
percorrendo quindi quel tragitto poetico che quei maestri avevano indicato: la
natura da quel momento non è più solo scenario per una sterile mimesi delle sue
bellezze, ma feconda fonte per la liberazione dei suoi sensi più nascosti,
considerando l’esistente non più come un oggetto inerte offerto alla propria
osservazione ma come un soggetto con cui entrare in rispettosa relazione.
Attraverso quei maestri e con l’esempio del loro liberante linguaggio pittorico
Venzo si rivolge alla natura con quel delicato e rispettoso atteggiamento di chi
si pone all’ascolto, per sentire il dire d’ogni cosa, tanto quanto ne possa
recepire e quindi svelare. Non chiude il soggetto nella gabbia d’un giudizio
(bello-brutto, vero-falso, ecc.) consentendo alle cose quella libertà espressiva
cui in seguito si presta un’attenzione quasi religiosa. È in questa condizione
per la quale le cose del mondo si liberano dalla funzionalità costringente. Il
loro corpo si apre allo sguardo dell’artista raccontandogli le mille storie che
finora ha custodito. Il corpo dei pigmenti, ogni materia apre narrazioni
seducenti, oltre la loro apparente fisicità, funzionalità, plasmabilità.
L’artista li sollecita ed interroga avido, rispettoso e innamorato. Dà loro voce
non solo attraverso una sapiente procedura tecnica, ma anche spesso dando
evidenza al gesto pittorico, come spesso ci mostrano le opere di Venzo di quel
periodo, dove i grumi della materia del colore ed il segno rivelato dal gesto
sulla superficie dipinta offrono una nuova e più affascinante possibilità
narrativa al corpo delle cose. E loro, così amate, diranno. Se il soggetto è il
corpo umano si può giungere alla passione che spiega allora perché ormai fare
il pittore non sia più solo un mestiere, ma una costringente scelta di vita.
Di fronte a questi imperativi dell’esistenza
assume un maggior senso la scelta di vita religiosa compiuta da Mario Venzo, che
spiega come il linguaggio artistico delle avanguardie si sia caricato di una
rinnovata possibilità di espressione del senso, così come, a partire da Cézanne,
si svilupperà fino alle maniere espressioniste utilizzate da Fratel Venzo.
L’artista potrà quindi utilizzarle al servizio dei temi religiosi per una loro
inedita e rinnovata possibilità di rivelazione dei misteri contemplati.
Quanta maggior pietà è infatti suscitata
dall’opera Gesù e la Veronica (1980), grazie a quella modernissima composizione in cui Fratel Venzo fa
emergere il volto di Cristo da una rappresentazione dell’ambiente quasi
astratta, esaltando questo isolamento del volto divino “rubato” dalla pietà
della Veronica con il contrasto cromatico della “terrignità” dei toni con cui è
trattato il paesaggio ed il candido ondeggiare del tessuto sopra alle
geometriche forme dell’ambiente in cui si svolge la scena. Il tutto chiuso
nell’intreccio formato dalla curva del corpo della donna e dai bracci della
croce, che paiono nascondere il viso di Gesù mentre sale il Calvario, quasi a
sottolineare il pietoso frangente per il quale di Lui sola ci rimarrà l’immagine
che la pietà della Veronica ha permesso di carpire.
Od anche quel profilo di montagne che tanto
ricorda la Montaigne S. Victoire di Cézanne nell’opera che rappresenta San Paolo Apostolo. Qui la novità è
anche nella scelta degli argomenti, come quella luce simbolica che lampeggia sul
manto dell’apostolo a sostituire quella più narrativa delle tradizionali
rappresentazioni della folgorazione sulla strada di Damasco. Od anche la scelta
del bastone che sostiene il cammino di San Paolo in luogo del tradizionale
attributo della spada, quasi a mostrare come la parola di Dio propagandata dal
peregrinare dell’Apostolo rappresenti un nuovo robusto riferimento per le
speranze dell’umanità: non quindi nuova regola coercitiva ma confortante
sostegno per la vita di chi quel verbo ascolterà.
Fratel Venzo contribuisce così a dare
cittadinanza ai temi sacri nell’ambito dell’espressione artistica contemporanea,
rinnovando quel millenario tragitto dell’arte cristiana, generata dall’unica
fede religiosa che ha consentito la produzione di immagini sacre, se prendiamo
in considerazione le credenze sopravvissute al tramonto dell’Olimpo della
civiltà classica. Il Cristianesimo è infatti contraddistinto dalla possibilità
di rappresentare la divinità, i santi e le scene riferite alle sacre scritture,
anche per consuetudini di devozione privata. Nelle civiltà religiose
mediterranee, il cristianesimo rimane quindi un’isola “figurativa”, essendo
iconoclasta la religione ebraica, cosi come quella musulmana. Anche le comunità
di culto ortodosso, pur ammettendo la rappresentazione di figure sacre,
sviluppano un’iconografia dal linguaggio rigido e immutabile[7] (le icone), che non ha conosciuto gli innumerevoli e straordinari sviluppi
dell’arte cristiana[8].
Persino il protestantesimo, dal XVI secolo, si è aggiunto alle fedi iconoclaste,
anche se la motivazione dell’orientamento di rifiuto delle immagini di
quest’ultima confessione fu causata forse più da una reazione all’accusa di simonia rivolta alla gerarchia
cattolica (per il commercio di immagini sacre e delle indulgenze), che non per
ubbidire al dettato dell’Antico Testamento: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di
quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è
nelle acque sotto la terra»[9].
Con un imperativo e categorico comando di tal
fatta, è immaginabile quale lacerazione si sia prodotta tra i fedeli dei
primissimi secoli di diffusione del cristianesimo, circa l’utilizzo di immagini
sacre. Soprattutto immaginiamo il disagio dei fedeli di origine greca e romana[10],
immersi in culture che attribuivano grande importanza alle immagini per il culto[11].
Sorse così una diatriba dagli accenti radicali[12],
sostenendo gli iconoclasti come l’immagine fosse suscitatrice di una devozione e
di pratiche d’adorazione che si originavano dai sensi, quindi dal luogo dove
meno si trovano le energie spirituali dell’uomo, in assonanza con il giudizio di
San Paolo: «opera carnis, quae sunt
fornicatio, immunditia, impudicitia, luxuria, idolorum servitus»[13].
Ma i favorevoli alle immagini per il culto
ebbero la vittoria sugli iconoclasti[14],
sostenendo come non fosse l’immagine l’oggetto dell’adorazione del fedele, ma
come questa fosse solo strumento e tramite per l’obiettivo trascendentale cui
l’immagine rimandava.
A favorire l’accettazione popolare del legittimo
uso delle immagini verrà in soccorso la leggenda che narra di come persino San
Luca, l’estensore di uno dei quattro vangeli, fosse un pittore e che avesse
addirittura eseguito il ritratto alla madre di Gesù[15].
A chiudere definitivamente il discorso a favore dell’uso delle immagini sacre,
interverrà infine l’autorevole pensiero di San Tommaso d’Aquino. Nella sua Summa Theologica egli dedica una
particolare attenzione all’argomento delle immagini sacre, legittimandone
l’esistenza anzi propugnandone la necessità. Ne indica anche le tre ragioni
fondamentali che ne giustificano l’utilità: 1) ad istructionem rudium; 2) ut incarnationis mysterium et sanctorum exempla
magis in memoria nostra maneant; 3) ad excitandum devotionis affectum[16]. Quest’ultimo punto è quindi la definitiva legittimazione anche del
veicolo dei sensi (affectum) per
giungere al sentimento di devozione.
Ecco allora perché riteniamo l’opera di Fratel
Venzo perfettamente allineata con le più alte ed autorevoli motivazioni
dell’arte religiosa che qui abbiamo richiamato, arricchendosi come fa il suo
lavoro delle rinnovate e potenziate possibilità d’espressione del senso che il
linguaggio pittorico del XX secolo consente. Solo che per Fratel Venzo non si
trattava solo di trovare questa feconda coincidenza espressiva tra l’altezza
dell’argomento sacro e la nuova possibilità di rivelazione del linguaggio
pittorico contemporaneo. Se per gli artisti il dipingere è una maniera del
vivere ecco allora che nella pittura d’argomento religioso meglio s’incarna
l’esperienza della vocazione di Fratel Venzo. In questo si trova il toccante
significato delle sue espressioni: «Ho tanto camminato, tanto lavorato e
sofferto per trovare il senso vero dei miei giorni. Non fu facile Signore.
Credevo nella bontà e nella bellezza delle creature come ragione del mio
esistere. È stato necessario che la sofferenza creasse dentro il cuore vuoti
incolmabili perché la tua luce potesse entrarvi...»[17].
[1] «Stavasi Fra Bartolomeo in convento,
non attendendo ad altro che agli ufficj divini e alle cose della regola,
ancorchè pregato molto dal priore e dagli amici suoi più cari che e’
facesse qualche cosa di pittura, ed era già passato il termine di
quattro anni che egli non aveva voluto lavorar nulla...», G. Vasari, Vite, tomo IV, pagg.
182-183, a cura di g. milanesi, Sansoni, Firenze 1981.
[2] Paolo Bellini, Venzo: l’uomo e
l’artista, in P.
Bellini e R. De Grada, Fratel Venzo. Antologia di
pittura, Librex, Milano 1986.
[3] «È curioso notare come
Rouault, tanto abituato alle figure sconvolte e deformate [...] non
abbia fatto uso di questa sua tecnica violenta nel soggetto specifico
della crocifissione. Forse egli nella sua sensibilità avvertiva che un
crocifisso irregolare e straziato portava con sé qualcosa di artefatto e
di banale, in definitiva di non creduto né vissuto, che sarebbe
risultato alla fine una pietosa menzogna alla stessa religione.», in P. Bellini, Georges Rouault. Uomo e artista,
pag. 133, Salamon e Augustoni edit., Milano 1972.
[4] S. Paolo, Efesini, 1, 10.
[5] T. Verdon, L’arte sacra in Italia, pag.
309, Mondadori, Milano 2001.
[6] P. Bellini, Georges Rouault. Uomo e artista,
op. cit., pagg. 48-49.
[7] «...l’arte medievale
[...] in Occidente non è mai giunta alla rigida sistematicità toccata
dalla pittura ecclesisatica bizantina...», in J. von Schlosser, L’arte del Medioevo, p. 82,
Einaudi, Torino 1989.
[8] «Per quanto riguarda la
fattura di queste opere [...] la tradizionale soggezione ai modelli finì
per incidere proprio sulle forme, che nella loro meccanica ripetizione
si andarono irrigidendo e schematizzando sempre più», in P. Belli D’Elia, L’immagine di culto, dall’icona alla
tavola d’altare, in C. Bertelli, La pittura in
Italia. L’altomedioevo, p. 380, Electa, Milano 1994.
[10] «...presso
i primi cristiani [l’immagine] era ancora legata alle tipologie pagane
e che si cercava di accordare invece alle dottrine cristiane...»,
in A. Grabar, Le origini dell’estetica medievale,
p. 87, Jaca Book, Milano 2001.
[11] «Le prime
rappresentazioni allegoriche cristiane (e qui è evidente il legame tra
cristianesimo e giudaismo, religione priva di immagini) si mostrano
timide e diffidenti nei riguardi della figura umana, e non soltanto
perché essa era un uso pagano», in J. von Schlosser, L’arte del Medioevo, op.
cit., pag. 36.
[12] «Fra il principio dell’VIII
secolo e la metà del IX, una febbre violentissima percorse a più riprese
il territorio dell’Impero Romano d’Oriente. Come racconta un
contemporaneo, intere città e moltitudini di popolo erano in perpetua
agitazione, da una parte e dall’altra, per la questione delle immagini;
e la lotta degli iconoclasti coi loro nemici, rompendo i confini della
mera disputa teologica, coinvolgeva l’esperienza di tutti, e assumeva
talora i colori della più recisa intolleranza e di una persecuzione
crudele e senza esclusione di colpi.», in S. Settis, Iconografia dell’arte italiana,
1100-1500: una linea, in G. Previtali (a cura di), Storia dell’arte italiana.
L’esperienza dell’antico, dell’Europa, della religiosità,
pag. 175, Einaudi, Torino 1979.
[13] Lettera di San Paolo ai
Galati, qui tratta da S. Settis, Iconografia...,
op. cit., pag. 177, Einaudi, Torino 1979.
[14] «Memorabile la
processione organizzata (843) da Teodoro, igumeno del monastero di San
Giovanni di Studio, per celebrare il definitivo trionfo
sull’iconoclastia, alla quale parteciparono mille monaci, ciascuno con
una icona in mano», in P. Belli
D’Elia, L’immagine di
culto..., cit., pag. 375.
[15] Nel vangelo di San Luca
hanno molta rilevanza gli episodi dell’infanzia di Gesù. Da qui nacque
la tradizione per la quale avrebbe avuto la conoscenza diretta della
Madonna. Inoltre «le capacità di acuto osservatore che emergono negli Atti degli Apostoli hanno
probabilmente alimentato la leggenda che fosse anche pittore e che
avesse realizzato il primo ritratto della Vergine», in R. Giorgi, Luca evangelista, in S. Zuffi, I Dizionari dell’arte.
Santi, ad vocem, Electa, Milano 2002.
[16] «per l’istruzione degli
incolti (rozzi); affinché il mistero dell’incarnazione e gli esempi che
discendono dalla vita dei santi possano meglio restare nella nostra
memoria; affinché venga suscitata una forte commozione nel devoto»; in S. Settis, Iconografia dell’arte..., cit., p. 223.
[17] P. Bellini e R. De Grada, Fratel Venzo.
Antologia..., op. cit., pag. 64.
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