So che non ci crederete, eppure
l’altro giorno mi ha scritto Van Gogh. Sapete tutti che la quantità di
lettere che ha scritto sono di poco inferiori al numero delle sue opere. Ebbene
non ha ancora smesso. Con la lettera che ieri ho ricevuto, oltre alla richiesta
consueta di qualche spicciolo, viste le quotazioni che hanno raggiunto i suoi
dipinti, mi chiedeva anche alcune spiegazioni. Dice di aver dato un’occhiata
ad alcune sale dei musei d’arte moderna che ospitano i suoi quadri. Non capiva
cosa fossero alcune “scatole azzurre” (lui ha definito così i video) che
stavano in qualche sala più in là, e si domandava come mai i musei di arte
contemporanea fossero in perenne allestimento, visto che ci ha trovato stracci,
fili di ferro, pezzi di vetro o legnetti vari. Mi ha detto che ha anche
inciampato in una fila di sassi «dimenticati» (mi ha scritto proprio così)
sul pavimento in una sala, in fondo alla quale c’era anche una statua di
Venere in gesso dimenticata sopra a un cumulo di stracci. Ho pensato di
telefonargli: a voce forse ci si spiega meglio.
Pronto? Ciao Vincent. Intanto grazie
per la tua splendida e, come al solito, struggente lettera. Credimi è una
grande emozione ogni volta che ricevo notizie da te. Come si fa, infatti, a non sentire tutta la commozione che questo tuo
nome sa evocare: come si fa a non ricordare e quindi a non risentire tutta
quella tua bruciante esistenza che si consumava attorno alla pittura con quella
passione e ostinazione che solo la feconda follia sa mantenere. Certo non erano
tempi facili per la tua poetica: ti ricordi quei tromboni dell’accademia che
tu e i tuoi compagni chiamavate pompieri? Sorridevate dei quegli elmi
enfaticamente calati su teste di improbabili e retorici corpi nudi da
culturista. Eppure dominavano la scena: ti ricordi di Bouguereau, Meissonier,
Cabanel e compagnia, che decidevano dell’accettazione ai Salons e che erano
arbitri dell’affermazione artistica? Ti
ricordi la fatica d’essere presenti nell’ufficialità delle manifestazioni
artistiche (so, so che alcuni di voi furono costretti a farsi ospitare da un
fotografo per esporre i loro dipinti). Beh, caro Vincent, come hai potuto vedere
anche tu nel tuo giro per i musei d’arte contemporanea, oggi lo scenario non
è molto cambiato. Oggi il Salon lo chiamano Miart, Pac, Mnamm, Moma, ecc. Certo
al posto degli elmi lucenti ci sono sporche lattine di bibite schiacciate, al
posto dei corpi retoricamente bronzei e unti in cieli con nuvole avvolgenti, ci
sono fotografie impiastricciate e video azzurrini. Cosa? Mi chiedi coso sono i
video? Beh, caro Vincent, i video sono piccoli schermi simili ad una “lanterna
magica” che mandano spesso un solo suono continuo e un immagine che si ripete
ossessiva. Credimi non c’è rassegna (cioè i tuoi Salons) che non ne abbia
almeno due o tre. Sono almeno cinquant’anni che li fanno: si, Vincent, oltre mezzo secolo! Come dici? Ma certo, lo so che la vostra poetica non è
durata più di un decennio e subito ha filiato impetuose avvincenti evoluzioni
pittoriche. Loro no, loro continuano da più di mezzo secolo.
Che poi sono cinquant’anni se
parliamo dei video e affini, perché, vedi, se invece parliamo di un mucchio di
ferri vecchi, qualche pezzo di legno impastato con piume appiccicato sulla tela,
o di un chiodo piantato in un cubo con attorno vetri rotti, allora sappi che
sono quasi cento anni che lo fanno: però si definiscono avanguardia! Vedi è
come se ai tuoi tempi, mentre tu incendiavi le tele coi colori dei campi di
Arles o il tuo amico Gauguin (a proposito, caratterino eh?) dipingeva cristi
gialli, io mi mettessi a dipingere come quelli della foresta di Barbizon e
sostenessi d’essere io all’avanguardia e voi invece essere ancora vecchi
pittori innamorati del colore: te lo immagini come reagirebbe Gauguin?
Eh, si, ma qui non ci sono più Thaiti
di salvataggio. Oggi c’è la globalizzazione (non chiedermi di spiegartelo,
intuiscilo). Oggi non si distingue più la radice dove sgorga la poetica: vedi
un chiodo, una fune, una piega in una tela bianca o un cumulo di stracci, hanno
il difetto d’essere uguali ovunque e quindi in un mondo mercantile e
globalizzato serve un’etichetta che li contrassegni. E’ difficile
distinguere uno straccio tedesco da uno francese. Figuriamoci se possono
esistere stracci fiamminghi.... E allora? Allora basta un’etichetta, come ti
dicevo, e il gioco è fatto: puoi far nascere la “strach-art”. Bastano un
po’ di soldi per far partire un critico pompiere, poi si aggiunge
un’assessore ignorante che si affida al sistema dell’arte e mette a
disposizione il palazzo pubblico con finanziamenti relativi (per striscioni,
mostroni, catalogoni con paroloni a pagine e pagine attorno alla foto dell’operina),
ed infine un compiacente museo d’arte contemporanea che ne acquista un po’
(di stracci) e il gioco è fatto: ti stupisci che nessuno dica che sono solo
stracci? No, caro Vincent, altrimenti farebbe brutta figura, perché verrebbe
etichettato come colui che “non se ne intende”. Come? Mi chiedi se nessuno
si accorge che non c’è dif-ferenza tra gli stracci lasciati da un
muratore e quelli della sala del museo? Che l’unica dif-ferenza è il contenitore (il museo) rispetto all’indif-ferenza del contenuto (gli
stracci)?
Ah,
ma allora ti ci metti anche tu! Allora vuoi fare anche tu come quelli che
pasticciando la filosofia con gli stracci poi la chiamano “conceptual-art”,
altrimenti i filosofi se ne accorgono.
Ma non facevi il pittore? Ma come, ci
hai spezzato il cuore con tutte quelle tue lettere a Theo (a proposito, come
sta? come va il commercio dei quadri? Vende? Ops, scusa forse ho toccato un
tasto sbagliato). Ti ricordi tutti i tuoi tormenti che costellavano quelle tue
missive? Ti ricordi i tuoi dubbi sulla maestria, sulla tua capacità d’essere
un buon pittore e disegnatore? Pensa, Vincent, oggi non sarebbe più un
problema! Come? Mi chiedi se sono tutti dotati di grande maestria? No, è che la
maestria del dipingere e del disegnare non serve più. Non è più una categoria
necessaria e sufficiente per partecipare al mondo dell’arte. Si, caro Vincent,
puoi essere un ottimo pittore e proprio per questo puoi essere escluso dal
sistema dell’arte. Se va bene ti dicono che sei un imitatore del passato. E ti
scartano. Ti ricordi quei tuoi ritratti, parlo del postino Roulin, della Mousmée,
della Berceuse, dell’Arlesiana, dei tuoi autoritratti, e così via? Ti ricordi
come il segno e il colore scavassero l’anima della figura rappresentata? Ti
ricordi come gli accostamenti arditi e squillanti dei timbri cromatici
esprimessero con potenza persuasiva l’intimo della figura, il suo volto colmo
di storia, di intenso vissuto, di densa umanità? Beh, addio Vincent, se lo fai
oggi seppure con la sensibilità che il nostro tempo ti suggerisce, ti dicono
che non è arte. Come se parlare degli uomini mostrando loro come sono fatti non
fosse arte. Si. E’ triste. E chi lo fa è come un clandestino cocciuto che
ascolta ancora il fuoco della passione, quella che alimenta l’energia poetica
che sta nel raggrumarsi della materia colorata attorno alla forma della pittura.
E’ una discriminazione assurda, lo
so. Ed è tanto vero che è assurda che, guarda un po’, esiste solo per le
arti figurative: nessuno dice che se scrivo un romanzo non sono uno scrittore,
anche se c’è chi sostiene che il romanzo è morto. Nessuno dice che non sono
un musicista se suono il violino su partiture sinfoniche anziché la chitarra
elettrica. Nessuno dice che non sono un cantante se eseguo spirituals anziché
il rap. Ma se faccio pittura figurativa mi dicono che non sono un artista
contemporaneo e mi escludono. Come se esistesse una temporalità della poetica:
ed ad accusarmi e ad escludermi sono proprio loro, che sono oltre cent’anni
(dai tempi di Ciurlionis e poi di Duchamp) che fanno le stesse cose, credimi
(permettimi lo sfogo) davvero noiosissime.
Come dici? Mi chiedi se non se ne
accorgono? Se per caso non sono forse in malafede? Se sono quindi tutti dei
bugiardi che si sono messi d’accordo? Ahi, ahi, ahi! Vincent, qui il terreno
si fa scivoloso: sai, girano parecchi soldi attorno alle manifestazioni
pubbliche, alla pubblicistica di settore, ai musei e alle aste. Come dici?
Conosci anche tu le aste? Si lo so che ormai è un terreno dove tu vinci sempre
e alla grande. Ma ti immagini che affare può essere vendere una pagina di un
libro con una parola cancellata con un tratto di pennarello che costa solo
qualche centinaio di lire, per svariati milioni? Mi dici che anche il Père
Tanguy scambiava qualche tubetto di colore per i tuoi quadri. Certo, mi ricordo
benissimo, ma vuoi mettere che quantità di produzione si può fare con le
paginette cancellate rispetto ai tuoi impegnativi e appassionati dipinti? Come?
Mi chiedi se nessuno se ne accorge? No. Nessuno: basta non chiamarle
cancellature, ma decontestualizzazioni, e il gioco è fatto.
A
risentirci, caro Vincent.