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Se di arte non si vive, perché si imbroglia?
L'occhio nel segno, supplemento al n° 59 di Grafica d'arte, Ottobre 2004

 

Morale ed Arte non sono mai andate molto d’accordo. Qualcuno sostiene infatti che l’arte sia amorale, non avendo orizzonti scanditi da giudizi etici: se l’arte accettasse la divisione tra buono e cattivo perderebbe metà dell’esistente e per l’universalità del suo sguardo sarebbe insopportabile. Non si tratta però di scomodare concetti filosofici che, tra l’altro, non ci competono; non si tratta di discettare tra cosa sia Bene e cosa sia Male e di cosa accada all’arte quando interagisce con queste due entità: qui vorremmo più semplicemente discorrere dell’Onestà e dell’Imbroglio, che come immaginate poco hanno a che fare con la filosofia, mentre molto hanno a che fare con le miserie umane.

Sebbene gli artisti talvolta sospettino di non appartenere alla categoria dei mortali, spesso vengono catturati dalle debolezze degli uomini, restando vittime delle loro iniquità e delle loro maniere più disgustose. Tra queste c’è la categoria dell’imbroglio e della truffa. Il mondo della grafica d’arte è una delle arene dove meglio recitano questi due insopportabili personaggi.

Vi chiederete chi possa essere il responsabile di tutto questo: immagino il coro di accuse circa i personaggi che ruotano nel mercato della grafica e che circondano l’artista e che vanno dai critici ai mercanti. Ma io ritengo che non sia così. Ritengo che la responsabilità sia soprattutto degli artisti. Il critico può infatti discettare filologicamente destreggiandosi tra «autenticità» e «originalità» di un’opera, come spassosamente abbiamo assistito in un recente talk show televisivo. Per chi se l’è perso ecco la fulminante distinzione proposta in televisione da uno tra i più teatrali tra i critici d’arte: se voi vedeste la Gioconda riprodotta su di un’etichetta di una bottiglia di vino potreste affermare con tutta serenità che quello è un dipinto autentico di Leonardo, ma altrettanto certamente potreste affermare che non è l’originale! Sottilissima arguzia da consumato sofista che salva l’acutezza mentale del critico ma lascia insoddisfatto quel collezionista che aveva acquistato una grafica, che riproduceva un dipinto di un paesaggio ligure, giudicata opera «autentica» ma non «originale». La grafica, ottenuta con mezzi fotomeccanici, riproduceva infatti un dipinto autentico, ma non era il dipinto originale. Quella grafica era quindi stata riprodotta in migliaia di esemplari su fogli firmati in bianco dall’artista. Chi è allora il colpevole? Non certo il critico che ha offerto un’inattaccabile difesa inerpicandosi sulle scale terminologiche tra le più impervie, ma credo invece che il responsabile sia l’artista che ha firmato in bianco i fogli da stampare a migliaia, quasi fossero francobolli.

Altri accusano invece i mercanti e la loro anima che vedono intrisa di sola avidità. Certo una tiratura di migliaia di esemplari di una grafica venduta a 200 euro a foglio potrebbe portare ad un incasso che supera le quotazioni di un dipinto di Fattori (fate due conti e ve ne accorgerete). Solo che l’autore della “prolifica” grafica non è Fattori. E così il mercante otterrebbe un incasso che la fama e la bravura dell’incisore non potrebbero consentirgli. Ma chi ha firmato la tiratura? La firma è ancora un’assunzione di responsabilità, oltre che un riconoscimento di originalità? Ma allora, anche qui, chi è il responsabile? E che valore potrà mai avere un’immagine riprodotta in così cospicua quantità? Parlo di valore, che come ben sapete, non è la stessa cosa del prezzo. Bene il responsabile è colui che firma, quindi, anche qui, è l’artista.

Quando mi sono provato a sostenere questi argomenti, oltre ad eloquenti silenzi da parte degli artisti con cui ho interloquito, spesso mi sono sentito opporre che le loro tirature non superavano mai una certa quantità di esemplari che veniva certificata con l’onesta apposizione del numero totale in calce all’immagine. Certo un numero: un numero arabo! E qui ho assistito alla pacificazione culturale di una delle questioni più tragicamente attuali del nostro tempo. Perdonate se ci sorrido, ma non so resistere: oltre ai numeri «arabi» posti in calce alla stampa esiste un’altra tiratura che reca gli stessi numeri, ma questa volta «romani» e la trafila ricomincia. Così avremo della stessa opera, poniamo, 90 esemplari (arabi), che uniti ai XC (romani), fanno 180 (arabo/romani)! Senza contare quelle copie con la misteriosa sigla «p.d.a.» (che non significa, per ...il pubblico a casa, «politiche di accordo» tra arabi e romani, ma bensì «prova d’artista») sulla cui quantità regna il mistero più assoluto.

Qui verrebbe da rispolverare anche per le opere della grafica quel felice aneddoto (storicamente incerto) che riguarda Aldo Manuzio, uno tra i più prestigiosi tipografi ed editori italiani a cavallo tra il XV e XVI secolo. Pare che quel dotto stampatore veneziano ottenesse un notevole successo commerciale che gli permise di mutare l’antico detto dei sapienti “carmina non dant panem” in “imprimere carmina dat panem”. Ma allora è per vivere che gli artisti ricorrono a questi artifici?

Ecco dunque l’obiezione finale: l’incisione è un lavoro impegnativo, lento e costoso, come farebbero quindi a camparci gli artisti? E qui, salvo rarissime eccezioni, come si dice, casca l’asino. Ho infatti scoperto che moltissimi incisori per vivere svolgono altri nobilissimi mestieri, a partire dall’insegnamento in ogni ordine di scuole fino al sacrosanto insegnamento dell’incisione nelle Accademie. Qualcuno più fortunato trova il proprio sostentamento nella pittura, alcuni mi hanno confessato di poter vivere di rendita, altri semplicemente godono di una meritata pensione. Il più simpatico di tutti mi ha confessato d’avere una moglie ricca!

Ma allora se non sono le necessità della vita che potrebbero stendere un velo di misericordia su alcuni “peccatucci” degli incisori, perché non rispettare questa difficilissima, affascinante pratica dell’arte incisoria? Perché il numero seriale che si appone in calce alla stampa non rispetta l’anima della sensibilissima tecnica che permette la qualità dell’immagine? Sapete tutti come una punta secca non regga alte tirature, come le bave cedano progressivamente sotto la pressione del torchio. Perché allora il numero uno non sta ad indicare la freschezza e la fedeltà della prima stampa, che conserva tutte le energie e le morbidezze del polso dell’incisore rispetto a quelle che le succederanno? Perché le tenerezze dei toni più lievi di un’acquatinta, che se ne vanno mano a mano che sale la tiratura, non possono godere del rispetto di una bassa tiratura che le conservi integre e delicate così come le ha pensate l’artista.

Ma allora è per miseria umana e non per necessità di sostentamento che si tradisce l’anima di questa pratica dell’arte, che dovrebbe conservare la sua fragilità anche nel numero delle copie, come la preziosità dei segni e dei toni vorrebbe che si facesse, restituendo nobiltà ed etica ad un’arte che quel giorno potrà anche rivendicare di non esser tacciata come minore, godendo di un’unicità  di linguaggio che sgorga da quell’irripetibile dialogo tra segni, solchi e toni, tutti rincorrentesi lungo l’infinito tragitto che scorre tra il bianco della carta e il nero dell’inchiostro. Affinché si possa ancora credere che rarità e bellezza possano continuare a camminare assieme.

Altrimenti chiudiamo le gallerie ed apriamo supermercati.

 

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